Centralità dell’agricoltura nella riconversione ecologica dell’economia

Nell’ambito della più generale esigenza di riconversione ecologica dell’economia, il capitolo dell’agricoltura assume sempre più centralità, sia rispetto al suo ruolo nei cambiamenti climatici, diventandone anche vittima, con allevamenti intensivi e monocolture convenzionali, ma anche in quanto il modello produttivo oggi egemone e in espansione su scala globale non risolve la funzione fondamentale della produzione di cibo in termini di soddisfacimento dei bisogni alimentari primari per tutta l’umanità.

Non solo. L’agricoltura industriale è sempre più in crisi, o, per dirla con Piero Bevilacqua nel suo libro “Il cibo e la terra”, si è incanalata in un vicolo cieco.

Infatti alla insostenibilità ambientale (di cui fa parte anche l’aspetto salutistico, vista la relazione sempre più certa tra alimentazione prodotta con la chimica e malattie cronico-degenerative), si accoppia in un tutto organico l’insostenibilità economica.

Il modello agricolo industriale produce cibo il cui prezzo è costantemente sotto i costi di produzione, anche perché penalizzato nella catena del valore a favore della GDO e sopravvive solo grazie ai sussidi pubblici (in Europa la PAC).

Si realizza così un capolavoro di negatività sistemiche.

Tutto ciò  sprecando il 30% della produzione, dato questo che non è un accidente dovuto al caso, ma è connaturato nel sistema produttivo stesso.
Su ciò si dovrebbe riflettere quando si punta molto, dalla Carta di Milano di Expo alle food policy, sul recupero dello spreco, cosa necessaria ma che non può costituire il cuore dell’iniziativa sul cibo.

Lo spreco si riduce ridistribuendo eccedenze o avanzi, o cambiando modello produttivo e garantendo l’accesso all’alimentazione?

Infatti, l’eccedenza si produce perché il sistema agroindustriale deve sovraprodurre cibo per tenere bassi i costi unitari in nome della competitività, per ripagare gli investimenti, e per tenere dietro alle esigenze logistiche e di profitto della GDO.

Peccato che stiamo parlando di cibo e non di bulloni, quando milioni di persone lo domandano e non vi possono accedere per via della povertà che lo stesso sistema agricolo industriale e l’agrobusiness contribuisce a produrre attraverso il land grabbing o insediando monocolture intensive laddove esisteva un’agricoltura biodiversa di sussistenza.

Il cerchio viene poi chiuso dalla finanziarizzazione del cibo, per la quale i prezzi al consumo dipendono ancor meno dai costi di produzione, ma dagli investimenti speculativi su scala globale, producendo nuove povertà e distruggendo l’agricoltura di piccole dimensioni, quel 70% di agricoltura contadina che ancora sfama l’umanità, dimostrandone l’efficacia.

Attraverso gli oligopoli delle sementi e dei prodotti per l’agricoltura chimico industriale, la terra non viene più coltivata, ma è diventata un supporto che  progressivamente inaridisce e si mineralizza, sul quale la chimica nutre direttamente la pianta, con riduzione drastica della biodiversità, non solo vegetale.

Come si può uscire da questo insensato circuito vizioso? In che modo costruire una resistenza culturale, educativa, comunicativa, come ci prefiggiamo in questo forum?

Intanto aggiungendo anche una resistenza pratica a questo modello, una resilienza attiva e strutturata, per dimostrare che un’alternativa non solo è necessaria, ma è anche concretamente possibile e che, in ogni fase critica di sistema giunta  a maturazione, mentre si lotta per il cambiamento, serve praticare l’obiettivo, dimostrandone la plausibilità.

Provo ad indicare tre percorsi di lavoro.

Il primo è quello che costruisce e valorizza le pratiche di agricoltura biologica contadina olistica che, secondo Via Campesina, costituisce la vera alternativa all’agrobusiness e all’agricoltura chimica industriale, improntata all’agroecologia e sui contadini custodi delle sementi e del territorio.

Mi riferisco in particolare a pratiche neomutualistiche basate su un’alleanza strutturata tra piccoli produttori e consumatori critici organizzati, orientata al concetto di coproduzione, e cioè: garanzia di acquisto dei prodotti agricoli con prezzi basati sui costi di produzione, codeterminazione delle colture , condivisione del rischio di impresa, sganciamento progressivo dei prezzi dalla legge della domanda e dell’offerta e dalla speculazione finanziaria,  cioè demercificazione del cibo, e deglobalizzazione dell’agricoltura, affidando cioè alle comunità locali la sua produzione, in un orizzonte di sovranità alimentare, restituendo reddito alla produzione.

E’ solo la sovranità alimentare, infatti, che può sfamare il pianeta, restituendo ai popoli il diritto di decidere cosa coltivare, cosa mangiare, come produrre (l’esatto contrario di quello a cui puntano i trattati internazionali).

Ma occorre che sia praticata, diffusa anche nel nord del mondo e resa evidente alla politica come alternativa possibile perché la sostenga, la incentivi e la generalizzi.

Pratica basata sull’agricoltura biologica che deve dismettere la esclusiva sua valenza salutistica riservata ai più abbienti, per assumere sempre di più quella di necessità da rendere accessibile a tutti, per rivitalizzare la terra agricola e restituirla alla sua funzione naturale di produzione di alimenti e non di merci.

Non sto parlando di utopie, ma di pratiche che si vanno diffondendo in Europa, negli USA e perfino in estremo oriente, per esempio attraverso quelle che vengono definite CSA (Community supported agricolture) e che sono una naturale evoluzione del consumo critico coi suoi Gas e i suoi DES.

Pratiche, le CSA, che al tempo stesso indicano un’alternativa al mercato.

Per approfondire questi percorsi, vi rimando a degli esempi concreti attuati dal DESR sul nostro territorio  così come è descritto nel recentissimo libro “IL GRANO FUTURO”  disponibile qui per chi lo volesse e di cui il 50% del prezzo di copertina andrà a sostegno di RiMaflow, con cui collaboriamo fin dall’inizio della loro esperienza di fabbrica recuperata.

Pratiche di agricoltura biologica, sottolineo, il cui andamento recente ci indica, tra l’altro, una cosa assolutamente interessante: crescita annuale a due cifre e aumento dei giovani agricoltori che vi si dedicano a scapito degli abbandoni degli anziani nelle coltivazioni convenzionali.

Ma serve anche il supporto delle politiche pubbliche, e quindi affrontiamo il secondo percorso propositivo, visto che ci rivolgeremo ai candidati alle prossime elezioni europee e si sta discutendo della PAC 2021/2027, cioè quante risorse pubbliche all’agricoltura, a chi e come.

Dobbiamo rivendicare l’orientamento di queste risorse verso questo modello agricolo alternativo, agendo tra l’altro anche attraverso la domanda pubblica locale basata sulla ristorazione collettiva (es. i 90.000 pasti giornalieri erogati da Milano Ristorazione) come terzo filone di iniziativa a livello locale/ nazionale, che non sviluppo per brevità.

I dati tendenziali ci dicono che, per esempio in Italia (1.100.000 aziende agricole), la distribuzione del montante PAC (41 miliardi di euro) si indirizza sostanzialmente a favore delle grandi aziende nell’ordine di centinaia di migliaia di euro all’anno a ciascuna, lasciando alla piccola azienda  agricola una media di 1000 euro circa.

Questa iniqua distribuzione si basa sul criterio del disaccoppiamento, cioè sui pagamenti diretti (primo pilastro) in base alla quantità di ettari posseduti, a prescindere da se, da cosa e come si coltiva, marginalizzando invece gli aspetti qualitativi, e cioè l’agricoltura ecosostenibile agroecologica.

In sostanza, per dirla con Josè Bovè, nonostante la crisi irreversibile dell’agroindustria, si continuano a finanziare le aziende che non hanno futuro in nome del paradigma tecnocratico-sviluppistico, mentre le aziende agroecologiche che hanno futuro non hanno sostegno.

Elemento altrettanto grave è poi che la PAC alimenta il dumping nei confronti del Sud del mondo, finanziando di fatto le esportazioni a prezzi più bassi dei costi di produzione.

La Pac futura di cui si sta discutendo, sembra vedere smuoversi qualcosa in direzione dell’agricoltura ecosostenibile e della riduzione dei tetti di finanziamento alle grandi imprese, ma in un contesto di riduzione globale delle risorse disponibili.

Si passerà dai 408,3 miliardi attuali, di cui 41 all’Italia, corrispondente al 37% del bilancio europeo, a 365 miliardi, corrispondenti al 32% dello stesso bilancio.

Questo quadro, ci sta portando ad un baratro che, come dice la Laudato si’, si produce a causa della dominazione della presunta supremazia tecnocratica orientata al massimo profitto.

Occorre quindi muoversi subito, alleandosi con le reti impegnate su questi terreni (ARI e AIAB referenti italiani di Via Campesina Europa, la rete Cambiamo agricoltura e altre) prima che la crisi imbarbarisca l’accaparramento del cibo, lavorando sia sul terreno propositivo/rivendicativo sia sostenendo e ampliando le pratiche di resistenza e resilienza già in atto. Queste pratiche dimostrano che ce la possiamo fare. Come dice Sergio Cabras nel suo libro “Terra e futuro” l’agricoltura contadina ci salverà!

Intervento forum associazione Laudato SI’
Vincenzo Vasciaveo
19 gennaio 2019 – Palazzo Reale

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