Dal congresso mondiale dell’International solid waste association (Iswa)
I luoghi più inquinati del mondo sono 50 discariche a cielo aperto; ecco come chiuderle: «Sono un’emergenza sanitaria globale. Senza interventi al 2025 rappresenteranno l’8-10% di tutte le emissioni di gas serra antropiche»
Se ci domandiamo quali sono «i luoghi più inquinati del mondo», l’immaginazione ha l’imbarazzo della scelta nel decidere dove atterrare. All’Iswa, l’Associazione internazionale rifiuti solidi (International solid waste association) le idee sono più chiare e – neanche a dirlo – hanno a che fare con i rifiuti. Ad esser precisi, non con la loro presenza – le milioni di tonnellate di rifiuti che tutti noi, insieme, produciamo ogni giorno – ma con la loro mancata gestione.
Nella cronaca italiana i rifiuti fanno sempre rima con paura. Ecco che per avere un approccio più razionale al tema è utile allargare lo spettro d’osservazione.
A Novi Sad, in Serbia, è in corso il congresso mondiale Iswa 2016 (nel 2012 era a Firenze), dove è stato presentato il nuovo rapporto A Roadmap for closing waste dumpsites – The World’s most polluted places. L’analisi ha per oggetto le discariche a cielo aperto sparse per il globo, ossia quei luoghi sulla terraferma dove lo smaltimento di rifiuti si concretizza in un regno di nessuno, deposito incontrollato o quasi di monnezza. Questo tipo di discariche rappresentano un tabù per i paesi sviluppati da oltre trent’anni, ma nel resto del mondo sono una realtà quanto mai attuale.
Le discariche a cielo aperto servono dai 3 ai 4 miliardi di persone, ed è qui che finisce il 40% dei rifiuti del mondo, con immensi danni alla salute umana e all’ambiente.
Basti pensare che nel sud-est asiatico l’esposizione all’inquinamento provocato da queste discariche comporta un impatto negativo sulla speranza di vita maggiore rispetto a quello della malaria; da sole, le cinquanta più grandi discariche a cielo aperto del mondo – sottolineano dall’Iswa – influenzano pesantemente la vita quotidiana di 64 milioni di persone, una popolazione più vasta di quella italiana e paragonabile a quella francese.
Quello delle discariche a cielo aperto non è però un problema che interessa soltanto i paesi più poveri. Se l’impatto del loro inquinamento rimane prevalentemente localizzato, così non è per le loro conseguenze economiche e climatiche.
Le prime sono valutabili in «decine di miliardi di dollari l’anno», mentre per le seconde – spinte dalla crescita della popolazione e la sempre più diffusa urbanizzazione – porteranno le discariche a cielo aperto ad essere responsabili «dell’8-10% delle emissioni di gas serra di origine antropica a livello mondiale entro il 2025».
Tutto questo, naturalmente, senza interventi correttivi.
«Le discariche a cielo aperto stanno diventando una emergenza sanitaria globale – ha dichiarato ieri il presidente Iswa, Antonis Mavropoulos – Siamo ben consapevoli del fatto che la chiusura di una discarica non sia semplice. Richiede un sistema di gestione dei rifiuti alternativo, con un’adeguata pianificazione, capacità istituzionali e amministrative, risorse finanziarie, sostegno sociale e infine consenso politico. Tutte queste condizioni sono davvero difficili e talvolta impossibili soddisfare nei paesi in cui discariche sono il metodo dominante di smaltimento dei rifiuti e il livello di qualità della governance è discutibile».
Per questo l’Iswa ha redatto il suo rapporto, una road map dei passi necessari da compiere definita come «risposta minima» contro l’emergenza sanitaria, cui si affiancherà un’alleanza mondiale per cercare di rendere operativo quanto per il momento recita solo l’inchiostro.
Sperabilmente, anche dall’Italia – per la quale partecipa al congresso Iswa una delegazione di Ecomondo, uno dei saloni più importanti d’Europa dedicati all’economia circolare – arriverà un contributo concreto in questo percorso. Nel mentre, sarebbe utile riuscire a far tesoro degli indirizzi Iswa più utili a una realtà come quella nazionale.
Da una parte, l’Italia conferma di avere un ottimo feeling con le discariche. Come ha ricordato in questi giorni il ministero dell’Ambiente, il nostro Paese è ancora sotto infrazione Ue per la presenza di 133 discariche abusive sul territorio nazionale, ingombrante presenza che ci impone il pagamento di una multa annuale da 55,6 milioni di euro. D’altra parte, anche le discariche legali – che dovrebbero rappresentare il necessario ma residuale, ultimo anello nella gerarchia della gestione rifiuti – rappresentano un’opzione abusata: lì finisce il 31% dei rifiuti urbani italiani, contro il meno dell’1% registrato da Germania, Svezia o Belgio.
Come riportare equilibrio lo suggerisce sempre l’Iswa, che non a caso ricorda come il problema riguardi «le persone, non i rifiuti» in sé per sé.
Per una loro corretta gestione occorre «un approccio olistico», non basato su slogan ma ricompreso in tutte la fasi della gerarchia: ridurre, riusare, riciclare, recuperare energia e solo per il residuo ricorrere alla discarica.
Driver normativi e fiscali per raggiungere l’obiettivo già esistono, basta metterli in pratica.
Senza però dimenticare che il cuore del problema non potrà essere risolto agendo sul rifiuto, ma a monte: se ogni anno l’umanità estrae oltre 70 miliardi di tonnellate di risorse naturali è difficile poi stupirsi se i rifiuti aumentano.
Luca Aterini – [20 settembre 2016]
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