I costi della guerra, i dividendi della pace

STERMINIOLa Siria è una svolta tra molti dubbi e sottili speranze. Come ha ammesso John Kerry, manca ancora la materia prima essenziale: la fiducia. Non è la prima tregua annunciata e finora sono tutte fallite perché non erano l’inizio della pace ma la continuazione della guerra, anzi delle molte guerre, non soltanto di quella al Califfato, che percorrono il Levante, dalla Siria all’Iraq al Kurdistan.

Eppure i costi di questo conflitto, in corso dal 2011 con 300mila morti e milioni di profughi, sono enormi sotto il profilo umano, economico e della sicurezza. Così alti e devastanti che quasi riesce difficile immaginare quali potrebbero essere i dividendi della pace.

La Siria, una sorta di Jugoslavia araba, ormai è anch’essa un’ex Siria e in quell’area, ai confini con Turchia e Iraq, l’Isis ha imperversato esportando mortalmente il jihadismo anche in Europa. Da questa destabilizzazione cronica sono venuti milioni di profughi: tre in Turchia, più di un milione in Libano e un altro milione in Giordania. Mentre le ricche monarchie del Golfo che alimentano questa guerra, Arabia Saudita in testa, non prendono neppure un profugo. L’Iraq ne accoglie 300mila nel Kurdistan e minoranze come cristiani e yazidi non esistono quasi più nei luoghi originari.

Ma l’Europa si è illusa che poteva delegare alla Turchia la questione, che naturalmente strumentalizza a suo vantaggio. Siamo indulgenti soprattutto con le nostre debolezze, oltre che con gli autocrati come Erdogan, Assad, Al Sisi e le monarchie petrolifere, per poi lamentarci che sulla sponda Sud non progrediscono mai e cadono in preda all’islam radicale.

La Siria offre un’istantanea disperante: 4 milioni e mezzo di rifugiati all’estero e più di 7 milioni di sfollati interni, un siriano su due non ha più la sua casa. La base economica è stata distrutta, la produzione di petrolio _ 500mila barili al giorno prima della guerra _ è crollata, la disoccupazione è oltre il 50% e l’80% dei siriani sono in preda alla povertà. La distruzione è paragonabile a quella di certe nazioni dopo la seconda guerra mondiale. L’Onu ha calcolato che in un arco di dieci anni ci vorranno almeno 200 miliardi di dollari per ricostruire la Siria e 150 per far tornare la Libia ai livelli di quella di Gheddafi.

Ma da ricostruire in Siria non ci sono soltanto palazzi e infrastrutture: ci sono da restaurare rapporti sociali fatti a pezzi dai settarismi esplosi con la guerra civile. C’è da salvare soprattutto un’intera generazione di giovani siriani. Più di 2 milioni di bambini hanno dovuto interrompere gli studi, mezzo milione è a rischio. Una scuola su quattro è stata distrutta e oltre 50mila insegnanti hanno perso il lavoro.

Su questi bambini si combatte la battaglia per il futuro, anche nostro.

Qualche giorno fa da Daraya, un sobborgo di Damasco, dopo una tregua locale, sono usciti dall’assedio dei bambini perfettamente vestiti, con la camicia bianca e il cravattino i maschi, le bambine con il fiocco in testa e la gonna stirata: pronti per andare a scuola. In questo quartiere tenuto dai ribelli hanno sofferto la fame: tutto hanno perso i siriani, non la dignità. Erano accompagnati da un guerrigliero con il fucile in pugno: «Combatto tra i ribelli perché è questo l’unico lavoro che ho trovato», ha dichiarato alla Bbc.

Proviamo a immaginare per un momento che possa esserci la pace, e ce ne vorrebbe più di una in Siria e in Iraq per sistemare le ambizioni di curdi, arabi, turchi, persiani, sciiti, sunniti, alauiti. Se si dovessero soddisfare tutte le rivendicazioni, non solo sarebbe necessario cambiare i confini tracciati dalle potenze coloniali, ma forse avere un Medio Oriente doppio di quello attuale.

La pace può significare sfruttare al meglio le risorse, da quelle umane a quelle energetiche e del suolo. Il Kurdistan iracheno rigurgita di petrolio, potrebbe dare da mangiare a 50 milioni di persone e oggi non ha i soldi per pagare un milione e mezzo dipendenti pubblici. Se ci fosse la pace, l’Iran esporterebbe dall’Iraq, dalla Turchia e dalla Siria il suo potenziale di oro nero e di gas. La stessa Russia porterebbe il suo gas in Europa meridionale e nei Balcani attraverso la Turchia e la Grecia. Invece di scappare da Siria, Iraq, Kurdistan, come è accaduto in questi anni, laureati, tecnici, professionisti, resterebbero sul posto: la ricostruzione, materiale e morale – come ha dimostrato il caso iracheno – è sempre più difficile quando un Paese è impoverito delle sue risorse umane migliori.

Con la pace si possono costruire strade, ferrovie, aprire le frontiere, liberare i commerci, far circolare le idee: è quanto è accaduto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Un patrimonio inestimabile, il vero miraggio di gran parte delle popolazioni della sponda Sud, che stiamo per depauperare con i “muri” e gli egoismi nazionali. È davvero banale: ma quando si tessono le lodi della pace è perché si avverte il timore che anche qui la possiamo perdere.

Bisogna essere realisti. Se Stati Uniti e Russia ci provano ancora una volta a fare la tregua è perché sentono che questa guerra a mondiale a pezzi, come l’ha definita il Papa, può sfuggire al controllo. Pochi giorni fa il faraonico G-20 di Hangzhou, il primo in Cina, è stato la prova del disordine geopolitico ed economico mondiale: una sfilata di leader incapaci di affrontare i problemi e forse persino di prevederli, come ha dimostrato pochi giorni dopo l’atomica nord-coreana.

 

In Medio Oriente gli Usa sono avviluppati nelle loro contraddizioni: usano i curdi contro l’Isis e la Turchia, alleato storico nella Nato, li colpisce. I sauditi, partner di ferro di Washington, hanno acquistato 100 miliardi di dollari di armi in otto anni di presidenza Obama e non riescono a vincere né la guerra per procura in Siria né quella in casa con lo Yemen. Anzi minacciano di aprire nuove tensioni con l’Iran, forse l’unico modo per far impennare le quotazioni del petrolio. Ma gli iraniani sono anche alleati degli Usa nel sostegno al Governo sciita di Baghdad contro il Califfato: l’intreccio sembra inestricabile.

Lo stesso Putin, che con l’intervento in Siria ha ridato alla Russia credenziali di superpotenza, è consapevole che Assad, come Erdogan, non è un alleato troppo affidabile e che gli iraniani non si faranno manovrare da Mosca. Per lui la Siria non deve diventare un altro caos come lo fu l’Afghanistan negli anni 80 per l’ex Urss. Non se lo può permettere neppure economicamente e il suo obiettivo non è ridursi a combattere nel deserto di Raqqa o nel Donbass.

Si può quindi immaginare la pace soltanto quando la guerra diventa troppo costosa e sfugge di mano: anche una tregua quindi può essere un passo avanti, ma senza farsi troppe illusioni.

Alberto Negri – da ilSole24Ore

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