Nei campi profughi della Palestina la lotta di liberazione è quotidiana

PalestinaLunedì sera, alla Casa delle Associazioni, si è parlato di Palestina. (Vol-Palestina-1)
Era atteso Naji Owdah, palestinese che vive nel campo profughi Dheisheh fuori da Betlemme, uomo che ha vissuto sulla sua pelle la resistenza contro l’occupazione della sua terra e  nonostante la repressione, le carcerazioni, i dodici anni passati in carcere, ha fondato un’Associazione per trasmettere ai giovani i suoi ideali di un mondo migliore e la fede in alcuni valori per cui vivere.

Partito purtroppo Naji dall’Italia prima del previsto, in sua assenza la serata è stata condotta da due rappresentanti della Casa per la Pace di Milano che tra le varie attività organizza annualmente un viaggio di conoscenza e solidarietà in Palestina.
Con i presenti, molto partecipi e informati, si sono richiamate le tappe della progressiva occupazione israeliana: oltre alle ripetute guerre, determinanti sono stati gli accordi conseguenti, come l’accordo di Oslo del 1993 che nei fatti ha “legittimato” la spartizione della Cisgiordania e la sua occupazione; la colonizzazione che con l’attuale governo è accelerata e  richiama ebrei anche fuori da Israele; la costruzione del muro iniziata dal 2002.

Un muro che lacera la vita collettiva, economica, sociale, familiare delle persone. Alto fino a otto metri, costruito abbattendo case, separando le case dai loro campi, dividendo famiglie che prima convivevano,  sottraendo l’acqua e le terre, limita la vita dei palestinesi in tutti i loro aspetti.
Il lungo tragitto, le code al check point di ingresso, i controlli, gli arresti indiscriminati, rendono la Cisgiordania una prigione a cielo aperto.

Peggiore ancora la vita in città come Hebron, circondata da un muro, occupata da 600 coloni a loro volta protetti da 2.000 militari israeliani. Una città ormai deserta, il cui posto di blocco militare all’ingresso è occasione quotidiana di violenze, arresti, ferimenti, volontaria negazione delle cure che provocano anche la morte a pochi metri dall’ambulanza.

La strategia israeliana non è solo militare, ma di mantenimento di una soggezione economica, esistenziale, di utilizzo delle risorse di una popolazione stremata, di trasformazione di chi voleva resistere in collaboratori.
A fronte di una esistenza sempre più martoriata, di una occupazione sempre più estesa e oppressiva, di prospettive politiche sempre meno realistiche, la resistenza palestinese è provata.

Tra i luoghi dove ancora vi si crede è il campo profughi Dheisheh a Betlemme, istituito nel 1948 dopo il primo conflitto arabo-israeliano, per accogliere i  profughi fuggiti dal massacro.

Ma sono passate tre generazioni e in poco spazio vivono 16.000 persone, in costruzioni ammassate le une all’altre, dove l’acqua è somministrata da Israele una volta ogni qualche settimana e spesso è assente per lunghi periodi. Confluiti da zone diverse della Palestina, i profughi di Dheisheh hanno presto imparato a risolvere i loro problemi solo aiutandosi, con una vita comunitaria di solidarietà e gradualmente di consapevolezza politica.

Nel campo profughi, e più ancora nelle carceri dove i loro uomini ripetutamente passano parte della loro vita, si è diffuso il Fronte Popolare di Liberazione. In questo campo particolarmente feroce è la repressione: tre o quattro volte alla settimana i militari israeliani entrano, in centinaia, armati tra le case; fanno incursioni o tengono in ostaggio la popolazione, arrestano a turno qualcuno, e alla minima resistenza sparano. Innumerevoli i ragazzi del campo che sono stati in carcere, dove si subiscono torture per fiaccare la resistenza, moltissimi feriti alle gambe, tanti uccisi.

Naji, fondatore dell’Associazione Laylac, nel campo raccoglie soprattutto giovani. Ormai sono consapevoli che le prospettive di una soluzione politica sono molto ristrette, ma quanto Naji trasmette è un insieme di valori  per cui dedicare la vita, una consapevolezza sociale e politica, una speranza di un mondo più giusto.

Una nota molto amara.
Naji era in Italia con cinque ragazzi di Dheisheh, invitati da Casa Pace a un Festival Internazionale per imparare le tecniche del Teatro dell’Oppresso. Dieci giorni di corso e poi spettacoli con altri attori, giovani, indiani, spagnoli; la vita in una città, la libertà anche per chi non era mai uscito dal campo di Betlemme.

Ma nel viaggio di rientro, alla frontiera, uno dei ragazzi, il più giovane, entusiasta e positivo, non è uscito dal’ufficio del controllo. Arrestato, di lui non si hanno notizie, non si sa in che carcere sia stato rinchiuso; l’avvocato mandato dalla famiglia ha saputo solo che per almeno due settimane di lui non si saprà niente. Ma chi già è stato in carcere può immaginare quale sia il trattamento cui sarà sottoposto.

Renata

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