Questa terra non si vende, si lavora e si difende
“In questi tempi di paura globale alcune persone hanno paura della fame, altre di mangiare. Un miliardo di persone stasera andranno a letto con lo stomaco vuoto, mentre tutte le altre hanno sempre più paura di mangiare quello che procura il mercato, che potrebbe essere veleno o spazzatura. Non possiamo più aspettare che i governi e le istituzioni facciano qualcosa di importante e sensato per affrontare questo problema capitale…” (Eduardo Galeano)
E’ in atto, a livello mondiale una corsa all’accaparramento delle terre (land grabbing).
Negli ultimi tempi stiamo assistendo a un incremento di questa attività che, contrariamente a quanto si può pensare, non avviene solo nei paesi classificati come in via di sviluppo ma anche nel così detto “Primo Mondo“.
La crisi prima del sistema capitalista e successivamente anche di quello neo-liberista fa si che anche nei paesi già “sviluppati” ci sia in corso un attacco nei confronti delle pochissime aree di terreno a vocazione agricola ancora rimaste da mettere a rendita e cioè quelle di proprietà degli Enti Pubblici.
La mentalità con cui si effettua questo tipo di operazioni viene definita “estrattivista“, cioè predatoria, che sottrae disponibilità alle collettività con la stessa modalità con cui agisce l’attività mineraria nei confronti del sottosuolo.
Tutto questo puntualmente a vantaggio di pochi soggetti forti.
Sempre di più, per il prossimo futuro, la “risorsa cibo” risulterà strategica per consentire o consolidare profitti, speculazioni e potere.
La terra viene quindi vista come una risorsa di cui impossessarsi e prenderne il controllo il più velocemente possibile e il cibo/merce sta assumendo sempre di più il duplice volto di “spazzatura standardizzata chimico-tossico” per le classi meno abbienti e “bio-di qualità-che fa bene alla salute” per i più facoltosi.
Dal punto di vista sociale invece, sempre a livello mondiale, siamo arrivati a superare i sette miliardi di umani che vivono su questo pianeta e dobbiamo tenere conto che un miliardo di questi non hanno cibo a sufficienza.
Alla stragrande maggioranza di tutti gli altri invece, quelli che hanno possibilità di comprare il proprio cibo, è stato imposto un regime alimentare standardizzato, uniformato, che genera per tutti grandi ingiustizie, problemi di salute e distruzione dell’ambiente, mentre genera enormi profitti solo per pochissimi.
Il capitalismo e il neoliberismo, come modelli di organizzazione della produzione e della distribuzione del cibo, si sono impossessati dell’intero pianeta.
Il cibo è stato ridotto allo status di merce e come qualsiasi altra merce è soggetto alle leggi dello sfruttamento e del profitto. Chi può permetterselo economicamente può continuare a vivere comprando l’energia (il cibo) necessaria, chi non può permetterselo non può continuare a vivere.
L’unico modo per riuscire a fare i soldi necessari è quello di vendere la propria forza lavoro ammesso che ci sia qualcuno disposto a comprarla. Come sempre avviene, c’è molta differenza di disponibilità fra coloro che “possono” comprare il proprio cibo; di conseguenza la concorrenza per piazzare il più alto possibile il proprio posto nella scala sociale è un valore da mettere come priorità.
I governi e le istituzioni cosa fanno?
Invece di operare per le collettività operano a vantaggio delle imprese multinazionali alle quali sono assoggettati. O meglio, appare sempre meno distinto il confine fra imprese multinazionali, governi di Stati nazione e criminalità organizzata.
Queste tre entità appaiono sempre meno “in lotta” fra loro e sempre di più come diversi modi di esercitare un “unico” fortissimo potere dominante.
Questo sistema ha come fine quello di mantenere la sua struttura di potere, con l’idea di aumentare all’infinito i suoi margini di profitto. Poco importa se a danno delle popolazioni.
Dalla Rivoluzione Verde siamo passati alla proposta della green economy.
In pratica si continua a dire che tutto questo è per ridurre la fame nel mondo, per “nutrire il pianeta“, per migliorare la vita del genere umano e così via.
La proposta della Rivoluzione Verde ha usato questa scusa, pur essendo chiara la distruzione che avrebbe causato alla natura, in tempi in cui l’opinione pubblica non era sensibile ecologicamente. Ora la green economy utilizza la scusa che non possiamo continuare a distruggere la natura e c’è bisogno di miglioramenti ecologici.
La grande, vergognosa e colossale manipolazione dell’immaginario collettivo che si è consumata all’EXPO di Milano ne è una prova evidente. Multinazionali come Coca Cola, Nestlé e tantissime altre, insieme alle nostre istituzioni e a chi gli da credito, ci hanno dato lezioni di “sostenibilità” e di amore per nostra madre terra.
Sotto questa luce, sentirsi cittadini appartenenti a sistemi democratici solo perché ci è concessa la possibilità di scegliere chi ci rappresenterà, delegando totalmente ed attingendo informazioni da un sistema uniformato e plasmato dal potere dominante, appare del tutto fuori luogo.
Il nostro paese, come molti altri, è in guerra pur non riconoscendolo, anzi, addirittura tradendo la propria carta costituzionale che espressamente la ripudierebbe. È in guerra con la natura e con il suo stesso popolo, una guerra subdola e non facilmente riconoscibile, ma le industrie che producevano ordigni e veleni per uccidere il nemico adesso fanno concimi chimici e pesticidi; quelle che costruivano i carri armati adesso fanno i trattori ed i padroni di queste fabbriche sono gli stessi.
Siamo al terribile paradosso dove, per motivi di igiene e salute pubblica, si vietano pratiche contadine che hanno sfamato le popolazioni per millenni mentre si autorizza, anzi si incentiva economicamente e culturalmente, l’uso di sostanze chimiche altamente tossiche e cancerogene per la produzione e per la lavorazione dei nostri alimenti. Gli stessi alimenti di cui, ormai, la maggioranza della popolazione ignora l’origine e non riesce a vedere oltre agli scaffali sempre forniti e luminosi della grande distribuzione.
Non abbiamo solo la nostra guerra casalinga, siamo anche coinvolti, a vari livelli, in molte altre guerre in tante altre zone di questo pianeta; vere e proprie guerre per le risorse, per le materie prime necessarie alle nostre industrie, guerre per l’energia e per il controllo di zone ritenute strategiche, guerre per l’acqua e per il cibo o solo semplicemente per “ricostruire” lucrandoci.
Siamo coinvolti in guerre che hanno iniziato a produrre, oltre che devastazioni, morte e sofferenza, anche migrazioni di popoli in fuga dai loro territori.
Siamo coinvolti in un sistema che dimentica immediatamente il retorico pietismo per il “profugo in mare” e dieci minuti dopo lo sbarco lo classifica “clandestino” e quindi lo rifiuta e lo segrega rendendolo buono solo ad ingrossare le file dei nuovi schiavi al lavoro nei campi, nei cantieri e nelle fabbriche che pretendono costi sempre più bassi.
Ovviamente da clandestino, quindi senza dignità e diritti.
Chi avesse intenzione di produrre autonomamente il proprio cibo e non possiede né terra né consistenti capitali a disposizione si trova nell’impossibilità di farlo.
L’accesso alla terra come base del sostentamento alimentare non è possibile per chiunque lo desideri, ma solo per pochi che se lo possono permettere e questo non è ammissibile.
Nasce con queste considerazioni di base la campagna “terra bene comune“.
Inizialmente si oppone alla tendenza generalizzata di privatizzare le terre ancora rimaste patrimonio pubblico considerandole le ultime parti di territorio rimaste a disposizione della sovranità alimentare delle popolazioni locali. In seguito si è allargata all’idea di far partire esperienze di una neo-contadinità agroecologica che si pone come soluzione dal basso alle problematiche sociali e ambientali fino a qua elencate proprio partendo da queste terre che spesso sono in abbandono o sottoutilizzate.
Va da se che questo non può venire dalle istituzioni, ma solo attraverso forme di organizzazione spontanee di cittadini che, iniziando dalla ri-costruzione di una comunità, continuano poi con il “liberare, custodire e difendere” delle porzioni di territorio sulle quali produrre il proprio cibo, istruirsi e curarsi in modo autonomo.
Sono nate dal basso, negli ultimi anni, molte esperienze e forme di lotta da parte di gruppi autoaggregatisi spontaneamente di cittadini e contadini che hanno per oggetto la difesa, e in alcuni casi anche la presa in custodia, di porzioni più o meno grandi di terre abbandonate o sottoposte a speculazioni di ogni genere. Si stanno sperimentando, a vari livelli, forme di autodeterminazione alimentare e non solo.
Prende forma il concetto di “Terra Bene Comune”.
Nei nostri territori il quadro è già fortemente compromesso. La terra è ormai di fatto quasi del tutto sottratta all’utilizzo delle comunità locali che sono sempre più depredate della propria autodeterminazione ed è messa al servizio di speculazioni varie, comprese quelle di una agricoltura industriale gestita dalla Grande Distribuzione Organizzata.
Tutto il tessuto socio-culturale, compresa l’identità stessa del territorio, è fortemente messo a repentaglio e in molti casi già abbondantemente distrutto.
Continuando queste pratiche e queste analisi confermiamo che l’accesso alla terra, che è un mezzo indispensabile alla produzione del cibo, al pari dell’acqua e dell’aria, va considerato elemento indispensabile alla vita umana e quindi non mercificabile. Come minimo, a partire dalle terre che già sono di proprietà della collettività e che per di più versano in stato di abbandono.
La lotta intrapresa a Mondeggi e quelle intraprese in molte altre zone devono essere per tutti noi un incoraggiamento, un incitamento all’azione: dobbiamo riconsiderare il senso della politica e non più intenderla solo come lo spazio di una delega espressa sulla base di informazioni attinte da un sistema uniformato e plasmato dal potere dominante, il quale evidentemente ha tutto l’interesse a mantenere le cose così come stanno il più a lungo possibile.
Dobbiamo considerare il fare politica un agire diretto, partecipativo, che non sia solo la spregiudicata difesa di quello che si pensa che siano i nostri interessi personali.
È fondamentale il dilagare su tutto il territorio di questa consapevolezza e di queste pratiche e il nostro sforzo è quello di trovare delle vie di comunicazione per promuovere e facilitare tutto questo.
Dobbiamo iniziare dagli strati sociali che più hanno la percezione del “bisogno” di un cambiamento radicale in questa società, e cioè giovani e migranti.
“Manca di realismo chi continua ad aspettarsi che per le vie convenzionali possa giungere quello che urgentemente ci serve. Come dicono gli Zapatisti, cambiare il mondo è molto difficile, forse impossibile; quello che ci sembra fattibile è creare un mondo del tutto nuovo“. (Gustavo Esteva)
Giovanni Pandolfini <giovannipandolfini@gmail.com>